Le Visite Pastorali, conservate nell’archivio storico diocesano di Teggiano, costituiscono una fonte preziosa di notizie cronologiche e religiose inerenti ad alcuni centri dell’antica diocesi caputaquense e quelle degli inizi del Settecento si configurano come le più minuziose dal punto di vista descrittivo.
Nella Santa Visita del 1708, tenuta dal vescovo di Capaccio, Francesco Paolo Nicolai, si fa cenno ad una preziosa reliquia del “Beato Cono”, conservata in un apposito “armarium” in un vano adiacente alla sagrestia di Santa Maria Maggiore di Diano, eccone lo stralcio descrittivo dal documento d’archivio:
«Visitavit armarium in alia camera, in quò asservat.b reliquia brachis B. Coni in theca argetea ad forma brachis in cuius digitis adsunt tres a -nuli aurei, quoq. Unus habet gemas pratiosas coloris rubri cum quatuor vulgo d.i rubbini ex dono Ill.ma Duchissa utilis D.na huius Oppidi. Conservat… modica pars Ligni S. Crucis in alia cruce argetea palmari…».
La traduzione del passo riferisce che il presule visitava l’armarium – una nicchia adibita ad archivio dei documenti parrocchiali ed a custodia degli oggetti preziosi – in una parte della stanza, in cui si custodiva la reliquia dell’arto superiore del Beato Cono in una teca argentea a forma di braccio e nella quale vi erano tre anelli d’oro alle dita ed uno con una gemma preziosa color rosso con quattro “cosiddetti” rubini, donati dall’illustrissima duchessa, utile signora dell’oppidum di Diano. Oltre a quanto, si conservava anche una modesta parte del Legno della Santa Croce in altra croce argentea rilevante ed ancora quattro reliquie inserite in teche lignee, sempre nell’armarium.
Prestando fede alla citazione documentaria, il dono del prezioso anello doveva esser stato elargito da Porzia Castromediano di Lecce, moglie di Geronimo Calà e quindi duchessa dello Stato di Diano. I coniugi, al tempo della perlustrazione del vescovo Nicolai, ne amministravano il feudo, essendo succeduti al duca Carlo Calà ed alla moglie Giovanna Osorio, nella tenuta del feudo dianense, che comprendeva la città ed i casali di Sant’Arsenio, San Rufo, Sassano e San Giacomo, mentre San Pietro apparteneva al duca di Siano.
Per intendere il significato e l’importanza del braccio reliquiario del beato Cono, bisogna analizzare i dati storici in nostro possesso circa le ricognizioni e gli spostamenti delle spoglie del santo; in uno di questi particolari avvenimenti dovette prendere corpo la commissione del prezioso manufatto, del quale non si hanno più notizie all’incirca dagli inizi dell’Ottocento.
Il 21 marzo 1583 il Parlamento della città prendeva atto che la cappella con le ossa di San Cono non era tenuta con il dovuto rilievo, decidendo di confermare la risoluzione alla maggiore venerazione ed al decoro del luogo sacro. Nel 1612 avveniva la ricognizione delle ossa del santo, da parte del vescovo caputaquense Pietro de Matta et Haro, che faceva “riaprire” l’arca di piombo in cui erano riposte le spoglie del santo, collocata nell’altare antico originario. Nella perlustrazione della cassa si rinvenivano il cranio, le costole e le ossa delle gambe ed il vescovo nel contempo ne distribuiva una parte a diverse persone, tra cui il monaco certosino Felice (la metà del cranio), dando ordine di spostare l’arca dalla cappella di San Vito Martire ad altro sito più nobile della chiesa matrice, probabilmente proprio l’attuale cappella della Traslazione.
Alla morte del vescovo caputaquense nel 1627, il suo corpo fu tumulato in Santa Maria Maggiore, con l’apposizione di uno stemma che si conserva ancora oggi in esposizione museale. È da notare come in questa specifica ricognizione del 1612 non figurassero gli arti superiori di San Cono, per cui è plausibile l’ipotesi che il braccio reliquiario con reliquia fosse già presente, al momento della riapertura della cassa plumbea contenente le spoglie del monaco benedettino.
Il 9 maggio 1688 veniva istituita la festa della Traslazione di San Cono, da celebrarsi il 27 settembre di ogni anno, con la solenne processione delle reliquie; viene da chiedersi se dell’intera cassa o del solo braccio reliquiario? Nel 1857, con la commissione della statua di Andrea Cariello, le reliquie trovarono l’attuale reposizione entro la nicchia protetta da grata ed al posto dell’antico sito della cassa plumbea venne collocato il simulacro ligneo, commissionato allo scultore padulese.
Possiamo avere un’idea della conformazione di tale preziosa reliquia e del suo contenitore antropomorfo in argento, osservando il braccio reliquiario di San Donato ad Auletta, che ancora si conserva nella cittadina della Valle del Tanagro. Un avambraccio con mano, al cui centro si apre una fessura verticale protetta da vetro, entro cui si osserva l’osso di un arto superiore del santo verginiano di Ripacandida, vissuto nell’eremo di Sant’Onofrio di Petina.
Tra le tipologie di custodie antropomorfe quella dei reliquiari a braccio è tra le più comuni, ma comunque molto singolare, in quanto la loro significazione andava ben oltre la stessa funzione alla quale erano deputati. La forma dell’avambraccio vestito con relativa mano, comunicava un messaggio all’osservatore, essendo un reliquiario “parlante” ossia un oggetto prezioso spesso contenente la relativa reliquia della medesima tipologia rappresentata, in questo nostro caso l’osso dell’avambraccio. L’oggetto prezioso stesso, mediante la reliquia all’interno, acquistava una “potenza” e finiva per diventare di per sé un oggetto di venerazione, con potere miracoloso.
Le braccia dei santi, quali membra attive del loro corpo, goderono di notevole prestigio ed il reliquiario, spesso in forma di benedizione alla latina, ne assunse la fisionomia carica di significato e le dita delle mani protese in alto indicanti la direzione da seguire, quella verso il Cielo. Lo stesso reliquiario a braccio veniva utilizzato per impartire la benedizione ai fedeli. La preziosa e splendente materialità del metallo, degli smalti e delle gemme, con cui erano realizzati, diventava braccio attivo dello splendente e trascendente corpo gloriosamente risorto del santo, identico nell’aspetto terreno e trasfigurato dalla grazia e dalla volontà divina.
Come ignota è l’origine e la commissione del braccio reliquiario del beato Cono, al pari ne è la sua sparizione, forse per una vendita o un furto; sappiamo che nel 1858, per l’erigendo obelisco in pietra nella piazza cittadina, furono impegnati 1000 ducati, dei quali ben trecento da ricavarsi con la vendita degli oggetti d’oro del santo e le offerte dei fedeli. Parrebbe strano che i dianesi abbiano potuto alienare un siffatto prezioso oggetto, per devolverne il ricavato alla costruzione dell’obelisco; più facile appare l’ipotesi circa un suo trafugamento, forse nel corso del Settecento o nei primi del secolo successivo. A conforto di quest’ultima tesi viene in ausilio la mancata citazione della presenza del braccio reliquiario sia nella Visita Pastorale del vescovo di Acerno, Giuseppe Mancuso, delegato alla perlustrazione il 10 giugno 1800, sia in quella dell’aprile 1826 da parte del vicario caputaquense Luca Carrano, per mandato del vescovo Filippo Speranza.
Note storiche preliminari tratte dall’Archivio Diocesano di Teggiano
Fonti d’archivio e bibliografia: Archivio Diocesano di Teggiano, Visite Pastorali, Santa Visita Francesco Paolo Nicolai 1708. Archivio Privato A. Candia. G. Volpi, Cronologia de’ vescovi pestani ora detti di Capaccio, Napoli 1752. Primo Centenario dell’Obelisco di San Cono (1887-1987), a cura del Comune di Teggiano, Salerno 1988. A. Didier (a cura di), Mille anni di storia di San Cono. Secoli XI-XXI, Teggiano 2014. G. Menato, “Le braccia dei santi al servizio di Dio: i reliquiari a braccio”, in OADI, Rivista Unipa, dal web.
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