a cura del prof. Mario Casella
Gli anni del Seminario. Durante gli anni della fanciullezza e dell’adolescenza, Michele non pensa nemmeno lontanamente a farsi prete. Racconterà nel 1965: “Quantunque non avessi lasciato definitivamente la Chiesa, pure mi ero, in certo qual modo, inselvatichito. Ciò nonostante le sacre funzioni mi attraevano, schivavo le cattive compagnie, aborrivo il vizio, ma che io pensassi al Seminario, alla vita sacerdotale nemmeno per sogno. Avevo lasciata la scuola da oltre tre anni, ero oramai grande e non avevo altra prospettiva della vita che coltivare i campi e particolarmente la vigna”. Ma ecco la chiamata del Signore. Nel marzo 1924, in preparazione alla Quaresima, si svolgono in Cattedrale le Sacre Quarantore con grande solennità e massimo splendore. Sono presenti il vescovo Caldarola, il vicario Fanelli, i canonici e i mansionari al gran completo, gli altri preti di Teggiano e i seminaristi; canti ben fatti, cerimonie eseguite alla perfezione, una gran folla: “tutto – racconterà don Michele nel 1965 – contribuiva a rendere gloria a Dio e tutto influiva beneficamente su l’animo dei presenti, come influì beneficamente sull’animo mio e particolarmente su quello di mio fratello, ora D. Antonio, molto più ben disposto del mio”. “A sera, – continua don Michele – mentre stavamo a tavola, io e mio fratello parlammo con molto entusiasmo delle sacre funzioni, ponendo, mio fratello, un particolare accento su i “prìuticchi puddicicchi”, così si chiamano allora i Seminaristi, in senso vezzeggiativo. Mia madre e mia nonna, da buone psicologhe nate, ascoltavano ed immagazzinavano ogni parola e ogni atteggiamento nostro, sicché, a tarda sera, mentre noi dormivamo, sognando chi sa che cosa, forse chiese, preti, sacre funzioni… esse, le due mamme, già vedove tutte e due, si raccolsero in consiglio e… stabilirono [il da farsi]. La mattina fummo chiamati tutti e due, io e lui, e il discorso fu rivolto prima a lui [ad Antonio]: ‘Ebbene, tu che parli tanto di prìuticchi, di clerichicchi… vorresti essere uno di essi anche tu?…’. La risposta non poteva essere che un bel sì deciso ed entusiastico. Il discorso poi venne rivolto a me: ‘E tu non vuoi essere preuticchiu?… che ne dici?…’. Io mi strinsi nelle spalle e non dissi né sì né no: la mia situazione mi sembrava molto diversa da quella di mio fratello: ero oramai grande, avevo lasciato gli studi da oltre tre anni e per quanto ero il fallito di tanti mestieri per cui, quantunque non mi sarebbe dispiaciuto, restai molto perplesso”.
Ma la mamma e la nonna hanno capito tutto e si recano subito in episcopio, dove parlano con il vescovo e con il vicario generale. Questi ascoltano e senza pensarci su dicono alle due donne: “Fateli venire subito e non si perda tempo”. In pochi giorni, mamma Gesualda e nonna Teresa preparano quanto è strettamente necessario: “la camisedda nova, li scarpetti luciti ed ogn’auta cosa”; e a metà marzo Michele e Antonio, incuranti delle perplessità di parenti e amici che raccomandano loro di non mettersi su quella strada, entrano in Seminario, dove vengono affidati alle cure di don Matteo Pica, prefetto d’ordine dei seminaristi e futuro vicario generale della diocesi. Con lui fanno una ricapitolazione generale delle scuole elementari, per essere in grado di affrontare quelle ginnasiali (così si chiamavano allora le scuole medie e ginnasiali di oggi). C’è però un pensiero che occupa e preoccupa la mente dei due giovani seminaristi: quello di pesare eccessivamente sulle modeste risorse finanziarie della famiglia. Si fa perciò strada in entrambi, ma soprattutto in Michele, l’idea di farsi missionari. Leggiamo in uno degli articoli autobiografici di don Michele: “Consapevoli del passo fatto e più ancora dell’enorme sacrificio che si erano addossati la mamma e la nonna, cercammo di fare il meglio che potevamo. Più di una volta mi venne l’idea di farmi missionario appunto per alleggerire un po’ il peso a mia madre, la quale anche se possedeva qualche cosa, non poteva toccare nulla, fino a quando l’ultimo figlio non avesse 21 anni: così erano le leggi tutorie e si pensi che l’ultimo figlio nacque nello stesso mese che mio padre morì, dicembre 1915. Mentre io pensavo come attuare l’idea di farmi missionario, stavo per rivolgermi al celebre Padre Semeria, venuto a Teggiano per le feste di S. Cono, ma venne a saperlo Mons. Vicario, il quale fece chiamare mia madre e le disse: Vedi, tuo figlio vuol farsi missionario, ma sappi che se si fa missionario, tu non lo vedrai più. E lei rispose: Voglio trasportare pietre in testa purché lui resti qui”.
Nel primo anno trascorso nel seminario di Teggiano, Michele si innamora della Vegine Immacolata. “Essa – confesserà in seguito – mi attrasse, mi incantò e mi conquistò”. A lui i superiori affidano l’incarico della custodia della cappella dove Maria troneggia con le braccia aperte: “[…] fu per me un grande onore”, scriverà in seguito. In preparazione alla festa dell’8 dicembre, fa della cappella una pulizia accurata e scrupolosa. E’ talmente preso dal suo lavoro che si dimentica di andare a colazione e poi a scuola. Ricorderà poi: “lavai le mattonelle ad una ad una, allora che non vi era acqua neppure per lavarci la faccia!… I Superiori non si accorsero, o finsero di non accorgersene che io mancavo a scuola, certo non mi dissero niente e ne fui contento”.
Giunge intanto il tempo della leva militare. C’è una legge che permette agli studenti che al momento della chiamata alle armi hanno cominciato il liceo di rinviare il servizio militare al 26° anno di età. Ma Michele ha frequentato la scuola solo fino alla quarta elementare e incombe su di lui il pericolo di dover sospendere gli studi per rispondere all’appello dell’autorità militare. Il giovane seminarista è preoccupatissimo. C’è però una via di uscita: fare il salto, cioè preparare gli esami di licenza elementare durante l’estate, sostenere gli esami in autunno e iscriversi al liceo. L’impegno è gravoso, ma non impossibile. Ricorderà poi Michele: “Mi sobbarcai a questo duro peso. Andavo due o tre volte alla settimana a Sassano, a piedi, a prendere lezioni dal compianto Teologo D. Roberto Corradini,[si tratta di don Corradino Roberti] il quale, bontà sua, non volle nemmeno un centesimo per il suo prezioso lavoro. Feci ad ottobre gli esami, riuscii a superarli, ma ero spossato, sfinito”.
Terminati gli studi ginnasiali, va a Salerno per frequentare il primo liceo e il primo anno di teologia; poi si trasferisce a Benevento per completare gli studi liceali.
A Benevento, Michele si distingue come portiere della squadra di calcio di quel seminario arcivescovile (in una partita con la squadra cittadina effettua una parata “magistrale” e un rinvio “poderoso” che supera la metà campo: il tutto fra gli applausi scroscianti dei numerosi presenti assiepati ai bordi del campo e i bottoni della sottana che gli volavano da ogni parte), ma prende zero in matematica agli esami di terzo liceo, per non aver saputo estrarre il lagaritmo da un numero con otto cifre decimali. Così – scriverà nel 1985 – “incominciai [lo studio della matematica] con un paliatone alla prima elementare e finii con Zero all’ultimo esame di Terzo Liceo”. A settembre supera l’esame di matematica e può così tornare a Salerno, dove nel nuovo Seminario regionale intitolato a Pio XI (“un casermone che non finiva mai”!), può completare i suoi studi teologici. Scriverà in seguito a proposto di questi continui trasferimenti da un seminario all’altro: “Vi assicuro che questo continuo mutare di posti, di libri, di professori, di ambiente fu per me un vero tormento. Ognuno può immaginare come accanto al mio travaglio ci fosse quello assillante di mia madre e della nonna, le quali, esauste di forze e di mezzi, non sapevano che pesci pigliare. Pensate che mia nonna, per fronteggiare la spesa della mia ordinazione sacerdotale, dovette vendere due tomoli di terra, per sole 2000 lire”.
Il 28 luglio 1935, per le mani del vescovo Caldarola, è consacrato Sacerdote. “Iniziai così la nuova tappa della mia vita, basata su una buona dose di buoni propositi, consolidati dalla ferma volontà di ubbidire a qualunque costo, pur sapendo che spesse volte mi sarei trovato nelle dure situazioni di… tirare l’asino per la coda” (così don Michele nel 1965).
Nell’autunno di quello stesso 1935 è chiamato in Seminario, dove rimarrà per ben 20 anni, prima come Prefetto d’Ordine (cioè di responsabile della disciplina e dell’ordine nel Pio Istituto), poi come vice Rettore e infine, a partire dal 1946, come Rettore. “Qui – affernerà nel 1965 – l’asino fu tirato quasi sempre per la coda: la vita di Seminario per me era poco attraente, eppure era quello il campo del lavoro che mi era stato assegnato […]. Vi avevo passati 20 anni circa e, alla fine, mi ci ero, in certo qual modo abituato, assuefatto e rassegnato […]”.
In quei vent’anni, don Michele prende tre iniziative che meritano di essere ricordate: la costituzione della “schola Cantorum”, la parifica delle scuole del seminario, la fondazione dell’Oratorio “San Giovanni Bosco”.
Quanto alla “Schola Cantorum”, tutto comincia in occasione della festa dell’Immacolata del 1935, allorché don Michele, da poco ordinato sacerdote, pur conoscendo solo la scala musicale, un po’ di tastiera e il valore delle note, mette mano all’armonium per accompagnare con qualche canto la messa solenne celebrata dal Vescovo. Tutto riesce così bene, che il vice rettore, don Mario Cobucci, chiede a don Michele di preparare una solenne accademia per il 25° episcopale di mons. Caldarola. “Ma tu si pacciu o che!”, si sente rispondere: “Io sono qui come un asino in mezzo ai suoni che se mando qualche raglio è perché so che non c’è nessun’altro asino che sappia ragliare… si attua in me il detto latino che dice così: ‘beati monocoli in terra coecorum’, che significa: beato chi teni n’uocchiu sulu in mezzo a quelli che non ne hanno affatto”. Ma il vice rettore insiste e a don Michele non resta che mettersi al lavoro. “Mi formai – scriverà in seguito don Michele – una schola cantorum di una sessantina di elementi, di giovanotti di ogni età, li divisi in quattro cori e così, per un mese e mezzo quattro volte al giorno, riusciii a dirozzarli ed armonizzarli per benino […]. Grazie a Dio e alla Vergine Santa andò tutto bene, al di sopra di ogni aspettativa. Fu la prima volta che avemmo una lode dai Superiori: “Potete andare sugli spalti del castello e gridare ai quattro venti: non è avvenuta mai una cosa simile a Teggiano”. Si costituì così a Teggiano una buona Schola Cantorum, che, nutrita ed armonizzata coi cori femminili, ebbe l’onore di partecipare a diversi concorsi, sia in Diocesi che altrove, a Salerno, per esempio, riportando ovunque buoni risultati”.
Le radici della “schola cantorum” che questa sera ha animato e allietato questo nostro incontro sono nella “schola cantorum” promossa da don Michele nel 1935. Ai singoli membri di questa splendida corale magistralmente diretta da Enrico Coiro vada la gratitudine, l’ammirazione e il plauso di tutti noi.
Della parifica delle scuole del seminario don Michele comincia a parlare durante la seconda guerra mondiale, allorché il numero dei seminaristi cala drasticamente, fino a scendere a quota 17. Ma la sua proposta non trovava consensi. Nel 1946, si tiene un Convegno di clero, che tra l’altro si occupa anche del Seminario. A don Michele viene dato l’incarico di riferire sulla situazione del Seminario, di cui non pochi sollecitano la chiusura. Nella sua relazione, estremamente realistica, don Michele ribadisce la sua proposta: per ripopolare il seminario non c’è altra strada che quella di parificare le scuole e aprire un convitto per alunni esterni. Di lì a poco, il vescovo Caldarola gli dice: “Che facciamo, chiudiamo?… A me dispiacerebbe molto… Lei sarebbe disposto di affrontare la situazione?…”. “Proviamo”, è la risposta. Il vescovo gli affida la Direzione e l’Amministrazione del Seminario, e don Michele avvia le pratiche per la parifica, che arriverà gradualmente: ci sarà prima l’Autorizzazione ministeriale (10 agosto 1952), poi il riconoscimento della prima classe (maggio 1954) e finalmente, il 18 maggio 1955, il riconoscimento legale di tutte e tre le classi della scuola media. Grazie alla parifica, gli alunni crescono e si moltiplicano: nell’anno scolastico 1959-60, preside don Vito D’Alto e segretario don Romano Tardugno, si arriverà alla cifra-record di 227 iscrizioni. Non solo. Per accogliere gli alunni esterni provenienti dai vari paesi della diocesi, sarà necessario aprire due convitti: uno maschile in seminario e uno femminile presso le Maestre Pie Filippini.
Mentre è Rettore del Seminario, don Michele è anche canonico penitenziere della Cattedrale, e in tale veste collabora attivamente con il parroco don Giovanni Giuliani. Con l’incoraggiamento di quest’ultimo e del vescovo Caldarola, promuove, tra l’altro, un’iniziativa che si rivelerà di fondamentale importanza per la gioventù teggianese. Con il sostegno del vescovo Caldarola e di un comitato appositamente costituito, e con il valido aiuto di don Cono Casella, che da poco è stato ordinato sacerdote, fonda l’“Oratorio San Giovanni Bosco”, che ha la sua sede negli ex locali della GIL accanto alla chiesa di San Francesco e che viene inaugurato il 31 gennaio 1951 con la rappresentazione dell’operetta teatrale “Ma chi è?”, di Marcello Cagnacci, la prima di una lunga serie di altre rappresentazioni teatrali e di recite o accademie nelle quali successivamente ragazzi e ragazze si esibiranno con grande successo di pubblico. L’Oratorio diventerà un punto di riferimento per le numerose iniziative culturali e ricreative che i vari rami di AC e le benemerite Maestre Pie Filippini promuoveranno negli anni Cinquanta ed oltre. Chi è stato giovane in quegli anni sa quale importanza abbia avuto l’Oratorio nella sua vita e nella sua formazione. E’ lì, tra quelle mura, che molti di noi hanno imparato ad uscire dal ristretto nucleo familiare per socializzare, confrontarsi con gli altri, pregare insieme (chi non ricorda le “Messe dialogate” in San Francesco?), affrontare il pubblico nelle rappresentazioni teatrali e vincere così timidezza e complessi; in una parola per crescere e prepararsi alle dure prove della vita. Furono, quelli, anni che ancora oggi ricordo con nostalgia; anni caratterizzati da una dolce felicità fatta di niente, o meglio di tante piccole cose, che servivano a farci crescere in allegria, nonostante le ristrettezze economiche in cui si dibatteva la quasi totalità delle nostre famiglie (ricordo, per fare un solo esempio, i saporitissimi panini alla mortadella, volgarmente detti “mposte”, che immancabilmente ci venivano offerti al termine di recite e concerti).